Il mio diario

Posted by Lucia Agostino


Sono tornata da quasi tre settimane dall’esperienza di volontariato in Guinea Bissau. Nel mese che sono stata lì, ho scritto un diario. Qui ne riporto solo qualche pagina, e mi scuso se dirò poco e se sarò poco esauriente. Posso dire ad ogni modo che è stata un’esperienza bellissima, ricca di emozioni intense: forse è per questo che non riesco a raccontare tutto con un filo logico, per cui preferisco riportare solo qualche considerazione, quelle che in questo momento sento più vive dentro di me. Penso di aver dato un centesimo di quello che ho ricevuto, perciò non posso che ringraziare, con l’impegno di non dimenticare, e piuttosto di testimoniare.




31.luglio.2009
Oggi ho scattato una foto a quattro ragazzini che si trovavano dietro le sbarre di un grande cancello: occhioni che mi squadravano e sembravano domandarmi:"Perché ci fissi con quel grande occhio di metallo che a tratti manda lampi di luce e che sembra rubare l’anima?" (perché è questo quello che pensano con paura alcuni quando scatti loro una foto) e  "perché tu hai questo “coso”(perché molti di loro non sanno cos’è) e noi no?” A volte ti senti in colpa quando li fotografi o fai loro un video, quando chiedi di mettersi in posa per te, quasi fossero su un palcoscenico. Poi tu porti la loro foto a casa, nella tua comoda casa, nel tuo comodo paese; la mostri agli altri e sei contento di mostrarla, così cerchi di spiegare quello che hai visto, quello che hai fatto; poi finisce tutto lì, guardando quella foto di quel posto scomodo ormai lontano, che però continua ad esistere.
Tu vivi qui nella tua comoda casa, loro lì, prigionieri dell’indifferenza. Brutta bestia l’indifferenza; e poi, indifferenza di chi? Non saprei ben dire: indifferenza dei governanti? O di quella pochissima parte di popolazione ricca? Indifferenza nostra, perché come possiamo permetterci di vivere in un certo modo quando sappiamo che altri vivono in pessime condizioni? Come posso continuare a comprare vestiti che in fondo ( e nemmeno troppo in fondo) non mi servono, sapendo che in Guinea Bissau c’è un bambino (giusto per dirne uno) che non può permettersi di frequentare la scuola privata (perché lì la scuola pubblica non funziona)? Basterebbe pagare 55 mila franchi, circa 80 euro.
Il concetto di utilità è molto relativo. Ciò che può essere necessario per me, può non esserlo per i restanti tre quarti del mondo. Quando affermiamo che “un qualcosa ci serve”, spesso non c’interroghiamo e non analizziamo il perché “quel qualcosa ci serve”. Ci serve per divertirci, per non annoiarci, per non essere esclusi, per vivere, per sopravvivere o per essere felici?
Spesso la linea divisoria tra ciò che veramente conta e ciò che forse è inutile viene meno, i confini che ci aiutano a distinguere ciò che è necessario da ciò che non lo è svaniscono e tutto è confuso; confini che non riguardano solo beni materiali, ma anche valori e in generale  momenti di tristezza e di difficoltà che non riusciamo a relativizzare perché i nostri problemi superano quelli di tutti gli altri. Così comincio a pensare che non abbiamo né il diritto né il tempo per essere tristi: il diritto perché non abbiamo alcun merito nell’essere nati dove siamo nati, e il tempo perché, bè, proviamo a contare i minuti, o forse meglio i secondi in cui durante la giornata abbiamo il tempo di pensare se siamo tristi o se siamo felici. Non abbiamo più il tempo di chiederci “come stiamo”.

2.agosto.2009
Ovunque volgi lo sguardo, trovi bambini. Se sposti un sasso, ne saltano fuori almeno dieci. Inutile chiedersi dove abitano, se sono tutti fratelli, dove sono i loro genitori; inutile chiedersi poi dove cercano e trovano qualcosa da mangiare. Non riesco a capire come possa una famiglia, dove entrambi i genitori non lavorano, mantenere otto, nove bambini. Questi sono responsabilizzati fin da piccoli: a volte vedi arrivare personcine alte meno di un metro, con uno zainetto in spalla. Ma non è uno zainetto, è un bambino ancora più piccolo aggrappato alla schiena del fratello maggiore come fosse una scimmia. Ogni bambino infatti che abbia  dieci anni, o che ne abbia cinque, si occupa del fratello minore, poi magari insieme vanno a cercare da mangiare, magari presso altre famiglie.

A volte mi chiedo: ma perché fanno così tanti figli? Molto spesso il numero di figli per donna è inversamente proporzionale alla ricchezza di un paese. Paradossale no? Tu, donna dell’occidente, non sai che con tutto quello che hai potresti sfamare almeno altri due o tre figli? E tu donna guinense, non vedi che con quello che non hai a mala pena riesci a sfamare te stessa? Eppure una legge sembra pesare sopra ogni altra cosa: chi ha tiene per sé, chi non ha divide. Com’è possibile?

11.agosto.2009
Questi bambini sembrano meravigliarsi per tutto, e per questo ti meravigliano continuamente. Inoltre sembrano affezionarsi tantissimo, e in fretta anche: è bellissimo quando cerchi di spiegare  qualcosa e vengono tutti accanto a te, e si stringono al punto tale da farti quasi cadere.
Quando ci disponiamo in cerchio, cercano sempre tutti di prenderti le uniche due mani che hai a disposizione, ed è allora che vorresti averne cento per poterle dare a tutti. Poi cominciano a litigare tra loro, e cerchi di metter pace  con un “chiarissimo” portoghese misto a parole che t’inventi perché non sai come spiegarti, visto che la lingua locale qui è il creolo.
Quante cose mi piacerebbe realizzare insieme a loro, ma come al solito ci vuole tempo: ciascuno di noi hai dei tempi necessari per poter porre la propria fiducia nell’altro; e quando cominci a vedere i primi risultati nella costruzione di un rapporto, è già tempo di tornare a casa.
Cantiamo molto: ogni giorno lasciamo lo spazio per almeno due o tre canzoni (perché la musica è un linguaggio universale per fortuna, e poi questo popolo la tiene nel sangue). Proviamo a tradurle in portoghese, ne cantiamo persino qualcuna in italiano, ma i bambini si sa sono come delle spugne e assorbono velocemente tutto. Anch’io ho imparato qualche canzone in creolo: sono bellissime, naturalmente con ritmi completamente diversi dai nostri, ma quando tutti battono il tempo all’unisono, e tu con loro, percepisci veramente una grande vicinanza, un senso di comunanza che chiude le porte alla diffidenza e al pregiudizio e le apre alla speranza di poter un giorno vivere in una terra più giusta e più equa.
Sono tornata da quasi tre settimane dall’esperienza di volontariato in Guinea Bissau. Nel mese che sono stata lì, ho scritto un diario. Qui ne riporto solo qualche pagina, e mi scuso se dirò poco e se sarò poco esauriente. Posso dire ad ogni modo che è stata un’esperienza bellissima, ricca di emozioni intense: forse è per questo che non riesco a raccontare tutto con un filo logico, per cui preferisco riportare solo qualche considerazione, quelle che in questo momento sento più vive dentro di me. Penso di aver dato un centesimo di quello che ho ricevuto, perciò non posso che ringraziare, con l’impegno di non dimenticare, e piuttosto di testimoniare. 31.luglio.2009 Oggi ho scattato una foto a quattro ragazzini che si trovavano dietro le sbarre di un grande cancello: occhioni che mi squadravano e sembravano domandarmi:"Perché ci fissi con quel grande occhio di metallo che a tratti manda lampi di luce e che sembra rubare l’anima?" (perché è questo quello che pensano con paura alcuni quando scatti loro una foto) e "perché tu hai questo “coso”(perché molti di loro non sanno cos’è) e noi no?” A volte ti senti in colpa quando li fotografi o fai loro un video, quando chiedi di mettersi in posa per te, quasi fossero su un palcoscenico. Poi tu porti la loro foto a casa, nella tua comoda casa, nel tuo comodo paese; la mostri agli altri e sei contento di mostrarla, così cerchi di spiegare quello che hai visto, quello che hai fatto; poi finisce tutto lì, guardando quella foto di quel posto scomodo ormai lontano, che però continua ad esistere. Tu vivi qui nella tua comoda casa, loro lì, prigionieri dell’indifferenza. Brutta bestia l’indifferenza; e poi, indifferenza di chi? Non saprei ben dire: indifferenza dei governanti? O di quella pochissima parte di popolazione ricca? Indifferenza nostra, perché come possiamo permetterci di vivere in un certo modo quando sappiamo che altri vivono in pessime condizioni? Come posso continuare a comprare vestiti che in fondo ( e nemmeno troppo in fondo) non mi servono, sapendo che in Guinea Bissau c’è un bambino (giusto per dirne uno) che non può permettersi di frequentare la scuola privata (perché lì la scuola pubblica non funziona)? Basterebbe pagare 55 mila franchi, circa 80 euro. Il concetto di utilità è molto relativo. Ciò che può essere necessario per me, può non esserlo per i restanti tre quarti del mondo. Quando affermiamo che “un qualcosa ci serve”, spesso non c’interroghiamo e non analizziamo il perché “quel qualcosa ci serve”. Ci serve per divertirci, per non annoiarci, per non essere esclusi, per vivere, per sopravvivere o per essere felici? Spesso la linea divisoria tra ciò che veramente conta e ciò che forse è inutile viene meno, i confini che ci aiutano a distinguere ciò che è necessario da ciò che non lo è svaniscono e tutto è confuso; confini che non riguardano solo beni materiali, ma anche valori e in generale momenti di tristezza e di difficoltà che non riusciamo a relativizzare perché i nostri problemi superano quelli di tutti gli altri. Così comincio a pensare che non abbiamo né il diritto né il tempo per essere tristi: il diritto perché non abbiamo alcun merito nell’essere nati dove siamo nati, e il tempo perché, bè, proviamo a contare i minuti, o forse meglio i secondi in cui durante la giornata abbiamo il tempo di pensare se siamo tristi o se siamo felici. Non abbiamo più il tempo di chiederci “come stiamo”. 2.agosto.2009 Ovunque volgi lo sguardo, trovi bambini. Se sposti un sasso, ne saltano fuori almeno dieci. Inutile chiedersi dove abitano, se sono tutti fratelli, dove sono i loro genitori; inutile chiedersi poi dove cercano e trovano qualcosa da mangiare. Non riesco a capire come possa una famiglia, dove entrambi i genitori non lavorano, mantenere otto, nove bambini. Questi sono responsabilizzati fin da piccoli: a volte vedi arrivare personcine alte meno di un metro, con uno zainetto in spalla. Ma non è uno zainetto, è un bambino ancora più piccolo aggrappato alla schiena del fratello maggiore come fosse una scimmia. Ogni bambino infatti che abbia dieci anni, o che ne abbia cinque, si occupa del fratello minore, poi magari insieme vanno a cercare da mangiare, magari presso altre famiglie. A volte mi chiedo: ma perché fanno così tanti figli? Molto spesso il numero di figli per donna è inversamente proporzionale alla ricchezza di un paese. Paradossale no? Tu, donna dell’occidente, non sai che con tutto quello che hai potresti sfamare almeno altri due o tre figli? E tu donna guinense, non vedi che con quello che non hai a mala pena riesci a sfamare te stessa? Eppure una legge sembra pesare sopra ogni altra cosa: chi ha tiene per sé, chi non ha divide. Com’è possibile? 11.agosto.2009 Questi bambini sembrano meravigliarsi per tutto, e per questo ti meravigliano continuamente. Inoltre sembrano affezionarsi tantissimo, e in fretta anche: è bellissimo quando cerchi di spiegare qualcosa e vengono tutti accanto a te, e si stringono al punto tale da farti quasi cadere. Quando ci disponiamo in cerchio, cercano sempre tutti di prenderti le uniche due mani che hai a disposizione, ed è allora che vorresti averne cento per poterle dare a tutti. Poi cominciano a litigare tra loro, e cerchi di metter pace con un “chiarissimo” portoghese misto a parole che t’inventi perché non sai come spiegarti, visto che la lingua locale qui è il creolo. Quante cose mi piacerebbe realizzare insieme a loro, ma come al solito ci vuole tempo: ciascuno di noi hai dei tempi necessari per poter porre la propria fiducia nell’altro; e quando cominci a vedere i primi risultati nella costruzione di un rapporto, è già tempo di tornare a casa. Cantiamo molto: ogni giorno lasciamo lo spazio per almeno due o tre canzoni (perché la musica è un linguaggio universale per fortuna, e poi questo popolo la tiene nel sangue). Proviamo a tradurle in portoghese, ne cantiamo persino qualcuna in italiano, ma i bambini si sa sono come delle spugne e assorbono velocemente tutto. Anch’io ho imparato qualche canzone in creolo: sono bellissime, naturalmente con ritmi completamente diversi dai nostri, ma quando tutti battono il tempo all’unisono, e tu con loro, percepisci veramente una grande vicinanza, un senso di comunanza che chiude le porte alla diffidenza e al pregiudizio e le apre alla speranza di poter un giorno vivere in una terra più giusta e più equa.