UN TATUAGGIO NELL'ANIMA

Posted by Laura Fumagalli


Eccomi qui, seduta sul letto della mia stanza decisa a cercare di scrivere tutto quello che sento nel cuore...mi guardo intorno…mille oggetti africani che abbelliscono la mia camera mi fanno tornare in mente i lunghi giorni della mia adolescenza, stesa sempre su questo letto, a sognare l’Africa.
Me lo ricordo bene quel momento, si il momento in cui ho fatto spazio all’Africa dentro di me, in cui si è insediata nelle mie viscere, avevo 14 anni ed ero in Chiesa intenta ad ascoltare i racconti di un padre missionario. Sinceramente non mi ricordo una parola di quello che ha raccontato, solo mi rivedo li seduta e come in un cartone animato vedo un fulmine attraversarmi il corpo. Il giorno dopo annuncio ai miei genitori che a 18 anni, per il viaggio della maturità andrò in Africa, ad aiutare i bambini, sì quelli che si vedono in televisione, quei bambini dagli occhioni grandi… incominciano i litigi, i mille perché, le tantissime paure, le frasi del tipo: “si può fare volontariato anche qui”.
Iniziano i lunghi anni di attesa e circa 4 anni dopo mia mamma (si proprio lei, che era terrorizzata dall’idea) mi fa conoscere Martina: inizia così il cammino. Altri 4 anni e mi ritrovo sull’aereo diretto a Nampula, all’età di 22 anni, dopo un percorso veramente intenso e formativo con Paola e Orielda e con al mio fianco Ale.

La “mia Africa”
Ancora intenta a pensare se ho tutti i documenti, se la valigia arriverà (perché deve arrivare, li ho le cose per i bimbi) non mi rendo davvero conto di dove sto andando e così l’impatto è come un pugno nello stomaco. È buio quando arriviamo a Nampula, è tutta blu, non si vedono i colori, si vedono le persone stese a terra, bambini attaccati alle madri con le capulane, i cestini di frutta invenduta, la discarica a cielo aperto. I miei occhi che guardano a destra e a sinistra cercano di afferrare tutto: eccola li l’Africa tanto sognata.
Mi addormento con mille pensieri in testa: stupore, curiosità e un po’ di timore fanno a botte dentro di me. Il sogno orami è vivo, è realtà e iniziano le tre intense settimane in terra africana! 
Fin da subito si incominciano a tessere i fili di una grande ragnatela di amicizia: Martina, la mia cara Vovò, Helena, Laina, Dalaina, Natalia, Faustino, Gabriela, Isabela, Adelaide, Maria Rita, Lourdes, Florbela, Gildo, Padre Elia…e potrei continuare ancora per un po’, soprattutto con la lista, decisamente lunga dei nomi di quei piccoletti tutti neri e impolverati che mi hanno rubato il cuore, dei ragazzi del centro psichiatrico che mi hanno dato tutto quello che umanamente si possa trasmettere.
Sono questi i volti della “Mia Africa”, sono i volti che ora qui in Italia mi fanno riempire tutto di nostalgia… Mal d’Africa, mal d’amicizia… chiamiamola come vogliamo: sono loro i protagonisti inconsapevoli non solo di un’esperienza tanto sognata, ma di un tatuaggio nell’anima.

Al centro psichiatrico
Insieme io e Ale ci scontriamo con una realtà un po’ particolare: è il mondo della psiche, della malattia mentale, della tossicodipendenza, è il mondo degli ingarbugliamenti dell’anima, dove tutto si discosta in modo così drastico dalla maledettissima normalità che anche là in Africa sembra avere una forma ben definita. La miseria nella miseria. Ci sono persone che nella povertà hanno costruito la loro vita, la loro quotidianità, la loro normalità; poi ci sono loro, una piccola viva realtà di giovani che, oltre agli evidenti problemi del vivere quotidiano, hanno quella “strana ossessione”, quel modo di parlare “così ripetitivo”, quelle paure “così fobiche”, quegli stati d’animo “così altalenanti”, a volte “depressi”. Per questo sono emarginati, allontanati, sono pochi i mozambicani che decidono di aiutare persone con questo tipo di problema, spesso si dà la colpa al malocchio e così, come in tutto il mondo, là dove non c’è conoscenza e informazione divampa la paura, il mistero e di conseguenza l’emarginazione.
Ad accoglierci al centro c’è Florbela, una volontaria portoghese di lunga data. Non è facile descrivere come una persona possa trasmettere con una umanità così pura, ferma e vibrante di passione allo stesso tempo, quello che il mondo sembra ignorare. Una persona che nel niente sembra avere tutto, sembra avere capito tutto quello che nella vita conta e riesce a trasmetterlo con i suoi sorrisi veri e disinteressati, con i suoi occhi così attenti alle esigenze di tutti quei ragazzi.
Iniziamo le nostre attività al centro con i ragazzi che si muovono al rallentatore… - sono le medicine ci spiegano - e, giorno dopo giorno, il ghiaccio si rompe, mi sento nel posto giusto per me e soprattutto scopro l’arte del creare con quello che nella nostra società viene cestinato: trucioli di matite, giornali vecchi, tappi di pennarelli scarichi e tutti insieme seduti sul quel grande tavolo creiamo non solo disegni e lavoretti, ma anche rapporti sinceramente vivi e curiosi delle diversità reciproche. Non c’è più bianco e nero, sano e malato, giovane e anziano, volontario e paziente, è un dare e ricevere alla pari e quello che ho ricevuto da quei ragazzi ora lo custodisco sotto la pelle e così, nel mio vivere quotidiano, quando il cuore torna là, percepisco quello di cui ho bisogno, in questa società dove non mi sembra di aver più bisogno di nulla perché inondata dal superfluo, sento ciò che mi manca: sono proprio quelle relazioni umili e sincere, così colme di affetto e quindi così preziose, a farmi vivere nella nostra “società del benessere” con un retrogusto un po’ amaro.

Con le giovani
Nel pomeriggio aiutiamo alcune ragazze, in cammino formativo con la Compagnia Missionaria, che vivono nella stessa casa dove siamo ospitati anche noi, ad imparare l’uso del computer. La riflessione che scaturisce da quei momenti vissuti mi fa sorridere: le ragazze sanno ballare come se non avessero i legamenti, sanno arrampicarsi con agilità sulle altissime piante di cocco, cantano e suonano come fossero uscite dal conservatorio, cucinano esaltando i sapori semplici come nei migliori ristoranti, ma sembra che ogni fibra del loro corpo rifiuti la tecnologia!!!! Nonostante la loro curiosità e il loro vivo interesse è davvero difficile per loro imparare ad usare quello strano arnese per noi così comodo! Ed è li che si imparano ad accettare i limiti reciproci e a lottare per superarli, piano piano, giorno dopo giorno e alla fine il loro Word hanno imparato ad usarlo…io invece ancora non sono capace di ballare!!! Mi ricordo di quella sera in cortile con Laina e Natalia che cercano di insegnarmi i balli africani, a stento trattengono le risate nel vedermi muovere come se avessi le gambe ingessate!!! E così capisci quanto sono preziose quelle relazione in cui ti spogli di ogni orgoglio e presunzione, in cui semplicemente scegli di essere invece che apparire, sentendoti comunque accolta con tutti i tuoi limiti e valorizzata nella tua diversità.
È sempre vivo tra noi italiani e loro mozambicani quella curiosità che scruta ogni piccolo gesto, ogni singolare abitudine ed ogni oggetto, dalle loro capulane colorate alle nostre tute adidas, che caratterizzano i due mondi e ognuna delle due parti sogna l’altro mondo, quello più lontano dal proprio. Ed eccolo lì l’esempio del mio piccolo mondo ideale nel bairo di Napipine, in quella casa missionaria, con ognuno delle persone che vi abitano, dove il razzismo, la xenofobia, il pregiudizio sembrano solo brutti ricordi.

I bambini di Napipine
E poi ci sono i bambini ad occupare ogni momento libero della giornata… “tia Laura…tio Ale”… Occhi grandi che sembrano raccontare la storia del loro continente, sorrisi che ti scaldano il cuore, allegria contagiosa, li stritolo fino a soffocarli…gli darei tutto, ma subito capisci che non è il giusto approccio, che hanno bisogno di regole e che pensare “poverino non ha niente” non è d’aiuto alla loro dignità.
I momenti con loro passano veloci, tra disegni, canti, balli, partite a calcio. Di quei bambini mi porto dentro gli abbracci, la loro determinazione nell’insegnarci il portoghese, il loro bisogno delle nostre attenzioni - di fronte alle quali non puoi non sentirti in qualche modo utile - e anche in loro la curiosità nell’osservarci. Come dimenticare quando mi hanno chiesto cosa fossero quegli strani puntini neri che abbiamo sulla pelle (i nei)! Non abbiamo il tempo di proferir parola, è un bambino che risponde al posto nostro e con tutta l’ingenuità immaginabile esclama: “Sono le punture dei moschitos!!” e un’altra risata liberatoria e genuina: è quello che inconsapevolmente riescono ad offrirti ed è quello per me più difficile da trovare ora ogni giorno!

Quello che mi porto dentro
È tutto questo l’Africa che mi porto dentro: ha i loro volti. Ma anche i colori dei tramonti, il verde dell’insalata, il sapore della papaia, le forme delle montagne, gli chapa affollati, le strade piene di gente, la musicalità della lingua locale, la particolarità dei mercati, l’umiltà e l’accoglienza della gente così povera ma che alla vita si aggrappa con determinazione, ma soprattutto è il tempo che mi manca. Il tempo gustato, il tempo che lascia spazio alle riflessione, mai frenetico. Il tempo come tuo alleato per comprendere appieno un’altra realtà, il tempo misurato in termini qualitativi, il tempo che le persone sanno dedicarti senza mai guardare l’orologio, il tempo per sentirti vivo e non schiavo di un paio di lancette.
Così ringrazio profondamente tutti e tutto…due persone in particolare: Martina grazie per i tuoi occhi sempre vigili e premurosi, per le tue provocazioni, le chiacchierate prima di addormentarci, gli spunti per riflettere, grazie per l’esempio di temperamento e vitalità; Ale…con te non servono le parole, è la condivisione di tutto ciò che ci accomuna e ci divide a fare di te il compagno di vita migliore al mondo.
Concludo con le parole di Paolo Rumiz: “Dall’Africa non ti stacchi mai. Dopo che l’hai conosciuta, la vita diventa un pendolarismo tra mondi infinitamente lontani che pure stan lì, sotto di noi, a tiro di un viaggio che non comporta nemmeno salti di fusi orari. E sempre il riadattamento più difficile è quello con il Nord, cosi come il desiderio più testardo abita sempre al Sud.”.
Eccomi qui, seduta sul letto della mia stanza decisa a cercare di scrivere tutto quello che sento nel cuore...mi guardo intorno…mille oggetti africani che abbelliscono la mia camera mi fanno tornare in mente i lunghi giorni della mia adolescenza, stesa sempre su questo letto, a sognare l’Africa. Me lo ricordo bene quel momento, si il momento in cui ho fatto spazio all’Africa dentro di me, in cui si è insediata nelle mie viscere, avevo 14 anni ed ero in Chiesa intenta ad ascoltare i racconti di un padre missionario. Sinceramente non mi ricordo una parola di quello che ha raccontato, solo mi rivedo li seduta e come in un cartone animato vedo un fulmine attraversarmi il corpo. Il giorno dopo annuncio ai miei genitori che a 18 anni, per il viaggio della maturità andrò in Africa, ad aiutare i bambini, sì quelli che si vedono in televisione, quei bambini dagli occhioni grandi… incominciano i litigi, i mille perché, le tantissime paure, le frasi del tipo: “si può fare volontariato anche qui”. Iniziano i lunghi anni di attesa e circa 4 anni dopo mia mamma (si proprio lei, che era terrorizzata dall’idea) mi fa conoscere Martina: inizia così il cammino. Altri 4 anni e mi ritrovo sull’aereo diretto a Nampula, all’età di 22 anni, dopo un percorso veramente intenso e formativo con Paola e Orielda e con al mio fianco Ale. La “mia Africa” Ancora intenta a pensare se ho tutti i documenti, se la valigia arriverà (perché deve arrivare, li ho le cose per i bimbi) non mi rendo davvero conto di dove sto andando e così l’impatto è come un pugno nello stomaco. È buio quando arriviamo a Nampula, è tutta blu, non si vedono i colori, si vedono le persone stese a terra, bambini attaccati alle madri con le capulane, i cestini di frutta invenduta, la discarica a cielo aperto. I miei occhi che guardano a destra e a sinistra cercano di afferrare tutto: eccola li l’Africa tanto sognata. Mi addormento con mille pensieri in testa: stupore, curiosità e un po’ di timore fanno a botte dentro di me. Il sogno orami è vivo, è realtà e iniziano le tre intense settimane in terra africana! Fin da subito si incominciano a tessere i fili di una grande ragnatela di amicizia: Martina, la mia cara Vovò, Helena, Laina, Dalaina, Natalia, Faustino, Gabriela, Isabela, Adelaide, Maria Rita, Lourdes, Florbela, Gildo, Padre Elia…e potrei continuare ancora per un po’, soprattutto con la lista, decisamente lunga dei nomi di quei piccoletti tutti neri e impolverati che mi hanno rubato il cuore, dei ragazzi del centro psichiatrico che mi hanno dato tutto quello che umanamente si possa trasmettere. Sono questi i volti della “Mia Africa”, sono i volti che ora qui in Italia mi fanno riempire tutto di nostalgia… Mal d’Africa, mal d’amicizia… chiamiamola come vogliamo: sono loro i protagonisti inconsapevoli non solo di un’esperienza tanto sognata, ma di un tatuaggio nell’anima. Al centro psichiatrico Insieme io e Ale ci scontriamo con una realtà un po’ particolare: è il mondo della psiche, della malattia mentale, della tossicodipendenza, è il mondo degli ingarbugliamenti dell’anima, dove tutto si discosta in modo così drastico dalla maledettissima normalità che anche là in Africa sembra avere una forma ben definita. La miseria nella miseria. Ci sono persone che nella povertà hanno costruito la loro vita, la loro quotidianità, la loro normalità; poi ci sono loro, una piccola viva realtà di giovani che, oltre agli evidenti problemi del vivere quotidiano, hanno quella “strana ossessione”, quel modo di parlare “così ripetitivo”, quelle paure “così fobiche”, quegli stati d’animo “così altalenanti”, a volte “depressi”. Per questo sono emarginati, allontanati, sono pochi i mozambicani che decidono di aiutare persone con questo tipo di problema, spesso si dà la colpa al malocchio e così, come in tutto il mondo, là dove non c’è conoscenza e informazione divampa la paura, il mistero e di conseguenza l’emarginazione. Ad accoglierci al centro c’è Florbela, una volontaria portoghese di lunga data. Non è facile descrivere come una persona possa trasmettere con una umanità così pura, ferma e vibrante di passione allo stesso tempo, quello che il mondo sembra ignorare. Una persona che nel niente sembra avere tutto, sembra avere capito tutto quello che nella vita conta e riesce a trasmetterlo con i suoi sorrisi veri e disinteressati, con i suoi occhi così attenti alle esigenze di tutti quei ragazzi. Iniziamo le nostre attività al centro con i ragazzi che si muovono al rallentatore… - sono le medicine ci spiegano - e, giorno dopo giorno, il ghiaccio si rompe, mi sento nel posto giusto per me e soprattutto scopro l’arte del creare con quello che nella nostra società viene cestinato: trucioli di matite, giornali vecchi, tappi di pennarelli scarichi e tutti insieme seduti sul quel grande tavolo creiamo non solo disegni e lavoretti, ma anche rapporti sinceramente vivi e curiosi delle diversità reciproche. Non c’è più bianco e nero, sano e malato, giovane e anziano, volontario e paziente, è un dare e ricevere alla pari e quello che ho ricevuto da quei ragazzi ora lo custodisco sotto la pelle e così, nel mio vivere quotidiano, quando il cuore torna là, percepisco quello di cui ho bisogno, in questa società dove non mi sembra di aver più bisogno di nulla perché inondata dal superfluo, sento ciò che mi manca: sono proprio quelle relazioni umili e sincere, così colme di affetto e quindi così preziose, a farmi vivere nella nostra “società del benessere” con un retrogusto un po’ amaro. Con le giovani Nel pomeriggio aiutiamo alcune ragazze, in cammino formativo con la Compagnia Missionaria, che vivono nella stessa casa dove siamo ospitati anche noi, ad imparare l’uso del computer. La riflessione che scaturisce da quei momenti vissuti mi fa sorridere: le ragazze sanno ballare come se non avessero i legamenti, sanno arrampicarsi con agilità sulle altissime piante di cocco, cantano e suonano come fossero uscite dal conservatorio, cucinano esaltando i sapori semplici come nei migliori ristoranti, ma sembra che ogni fibra del loro corpo rifiuti la tecnologia!!!! Nonostante la loro curiosità e il loro vivo interesse è davvero difficile per loro imparare ad usare quello strano arnese per noi così comodo! Ed è li che si imparano ad accettare i limiti reciproci e a lottare per superarli, piano piano, giorno dopo giorno e alla fine il loro Word hanno imparato ad usarlo…io invece ancora non sono capace di ballare!!! Mi ricordo di quella sera in cortile con Laina e Natalia che cercano di insegnarmi i balli africani, a stento trattengono le risate nel vedermi muovere come se avessi le gambe ingessate!!! E così capisci quanto sono preziose quelle relazione in cui ti spogli di ogni orgoglio e presunzione, in cui semplicemente scegli di essere invece che apparire, sentendoti comunque accolta con tutti i tuoi limiti e valorizzata nella tua diversità. È sempre vivo tra noi italiani e loro mozambicani quella curiosità che scruta ogni piccolo gesto, ogni singolare abitudine ed ogni oggetto, dalle loro capulane colorate alle nostre tute adidas, che caratterizzano i due mondi e ognuna delle due parti sogna l’altro mondo, quello più lontano dal proprio. Ed eccolo lì l’esempio del mio piccolo mondo ideale nel bairo di Napipine, in quella casa missionaria, con ognuno delle persone che vi abitano, dove il razzismo, la xenofobia, il pregiudizio sembrano solo brutti ricordi. I bambini di Napipine E poi ci sono i bambini ad occupare ogni momento libero della giornata… “tia Laura…tio Ale”… Occhi grandi che sembrano raccontare la storia del loro continente, sorrisi che ti scaldano il cuore, allegria contagiosa, li stritolo fino a soffocarli…gli darei tutto, ma subito capisci che non è il giusto approccio, che hanno bisogno di regole e che pensare “poverino non ha niente” non è d’aiuto alla loro dignità. I momenti con loro passano veloci, tra disegni, canti, balli, partite a calcio. Di quei bambini mi porto dentro gli abbracci, la loro determinazione nell’insegnarci il portoghese, il loro bisogno delle nostre attenzioni - di fronte alle quali non puoi non sentirti in qualche modo utile - e anche in loro la curiosità nell’osservarci. Come dimenticare quando mi hanno chiesto cosa fossero quegli strani puntini neri che abbiamo sulla pelle (i nei)! Non abbiamo il tempo di proferir parola, è un bambino che risponde al posto nostro e con tutta l’ingenuità immaginabile esclama: “Sono le punture dei moschitos!!” e un’altra risata liberatoria e genuina: è quello che inconsapevolmente riescono ad offrirti ed è quello per me più difficile da trovare ora ogni giorno! Quello che mi porto dentro È tutto questo l’Africa che mi porto dentro: ha i loro volti. Ma anche i colori dei tramonti, il verde dell’insalata, il sapore della papaia, le forme delle montagne, gli chapa affollati, le strade piene di gente, la musicalità della lingua locale, la particolarità dei mercati, l’umiltà e l’accoglienza della gente così povera ma che alla vita si aggrappa con determinazione, ma soprattutto è il tempo che mi manca. Il tempo gustato, il tempo che lascia spazio alle riflessione, mai frenetico. Il tempo come tuo alleato per comprendere appieno un’altra realtà, il tempo misurato in termini qualitativi, il tempo che le persone sanno dedicarti senza mai guardare l’orologio, il tempo per sentirti vivo e non schiavo di un paio di lancette. Così ringrazio profondamente tutti e tutto…due persone in particolare: Martina grazie per i tuoi occhi sempre vigili e premurosi, per le tue provocazioni, le chiacchierate prima di addormentarci, gli spunti per riflettere, grazie per l’esempio di temperamento e vitalità; Ale…con te non servono le parole, è la condivisione di tutto ciò che ci accomuna e ci divide a fare di te il compagno di vita migliore al mondo. Concludo con le parole di Paolo Rumiz: “Dall’Africa non ti stacchi mai. Dopo che l’hai conosciuta, la vita diventa un pendolarismo tra mondi infinitamente lontani che pure stan lì, sotto di noi, a tiro di un viaggio che non comporta nemmeno salti di fusi orari. E sempre il riadattamento più difficile è quello con il Nord, cosi come il desiderio più testardo abita sempre al Sud.”.